Ciao, normalmente mi tengo lontano da temi di politica e guerra, ma credo sia importante fare chiarezza su certi aspetti: la propaganda, infatti, finisce spesso per accecare le persone.
Negli ultimi mesi si è diffusa con insistenza la voce secondo cui la Russia potrebbe invadere l’Europa entro “100 giorni” – o addirittura 100 ore. Un titolo che sembra uscito da un film catastrofico più che da un’analisi geopolitica. La realtà, però, è ben diversa: secondo la maggior parte degli esperti di difesa e sicurezza non esistono basi concrete per considerare plausibile uno scenario del genere. Non si tratta di un piano reale, ma di una proiezione estrema, nata come monito per evidenziare la fragilità delle difese europee.
L’origine di questa narrazione si trova negli avvertimenti dell’ex comandante Nato Richard Shirreff, il quale ha ipotizzato che, in caso di conflitto, un’offensiva russa potrebbe penetrare nelle linee europee in circa 100 ore, generando caos logistico e psicologico. Un’ipotesi che, se estrapolata e semplificata, alimenta il timore di un attacco imminente; ma che in realtà nasce per sottolineare l’urgenza di rafforzare gli investimenti nella sicurezza comune, non per anticipare un’aggressione programmata. Gli analisti concordano: la possibilità di un conflitto diretto e su larga scala rimane minima.
La Russia, già impegnata in una guerra logorante e dispendiosa in Ucraina, non ha né le risorse né l’interesse per affrontare la Nato. Le minacce più concrete non riguardano carri armati o invasioni in stile novecentesco, bensì strumenti moderni: cyberattacchi, disinformazione, sabotaggi, pressioni economiche e psicologiche. È su questo terreno che Mosca – come altri attori globali – cerca di indebolire l’unità europea, generando sfiducia e alimentando la percezione di precarietà. Per comprendere il contrasto tra paure costruite e realtà storiche basta tornare al 3 novembre 1918, quando le truppe italiane entrarono a Trento. Tre squadroni di Cavalleggeri di Alessandria, guidati dal Colonnello Ernesto Tarditi, attraversarono il ponte sul Fersina, seguiti da Arditi, Alpini e Artiglieri. Poche ore dopo, con l’armistizio di Villa Giusti, l’Italia vedeva la fine della Prima Guerra Mondiale. Quel giorno, segnato dall’issare del tricolore sul Castello del Buonconsiglio, resta simbolico perché rappresenta la liberazione e la riconquista della pace, ottenuta a caro prezzo e con sacrifici enormi. Se confrontiamo quella data con le paure odierne, appare evidente che oggi le guerre più rumorose non si combattono sul campo, ma nella mente. Le notizie di invasioni imminenti servono meno a descrivere un pericolo reale e più a mettere alla prova la tenuta politica e psicologica delle società europee.
È un modo per generare disagio e convincere governi e opinione pubblica a destinare più risorse alla difesa. Del resto, nessuno dei grandi attori globali sembra avere reale interesse in una guerra totale: i costi umani ed economici sarebbero insostenibili. Ciò non toglie che il clima di tensione possa risultare utile a molti: a Donald Trump, per rafforzare la propria posizione interna evitando di perdere la poltrona; alla Russia e alla Cina, che mirano ad ampliare la loro influenza senza bisogno di invadere fisicamente, sfruttando invece la propaganda, la leva energetica e il controllo economico.
La lezione che arriva dalla storia è chiara: la pace non si preserva con slogan allarmistici, ma con lucidità, cooperazione e capacità critica. Oggi le guerre più diffuse sono psicologiche, fatte per destabilizzare e dividere. Ricordarlo è fondamentale, perché i popoli non desiderano la guerra: è solo chi detiene il potere a trovare vantaggio nel brandirne lo spettro come strumento di dominio.
Antonio Cesario



