Fu Hugh Everett che scoprì il multiverso per primo…

Condividi
image_pdfimage_print

Immagina un giovane fisico seduto alla sua scrivania, una pila di appunti davanti, il posacenere pieno di mozziconi di sigaretta. È il 1956, Princeton. Hugh Everett III sta scrivendo qualcosa che cambierà per sempre il modo in cui pensiamo alla realtà, anche se ancora non lo sa. Le sue mani scorrono rapide sulla macchina da scrivere, i tasti ticchettano mentre formula l’idea che lo accompagnerà per tutta la vita. Sta per proporre una teoria così radicale da essere rifiutata in blocco dalla comunità scientifica. Una teoria che, decenni dopo, diventerà uno dei concetti più affascinanti della fisica e della cultura pop: il multiverso.

Nel mondo della fisica quantistica degli anni ‘50, la visione dominante è quella di Copenaghen, sostenuta da Niels Bohr e Werner Heisenberg. Secondo questa interpretazione, le particelle quantistiche non hanno una posizione definita finché non vengono misurate. Prima di quell’atto, sono in uno stato di sovrapposizione, come se fossero ovunque e in nessun luogo. Ma quando un osservatore misura il sistema, la funzione d’onda che descrive la particella “collassa”, e la realtà assume un valore specifico. È un’idea che funziona, ma lascia un senso di incompletezza: perché la funzione d’onda dovrebbe collassare? Cosa significa davvero il concetto di osservazione?

Everett rifiuta questa visione. Per lui, il collasso della funzione d’onda è un’illusione. Invece, ogni volta che una particella può assumere più stati, l’universo non sceglie un’unica possibilità: li realizza tutti, ma in realtà separate. Se una particella può trovarsi sia a destra che a sinistra, esisteranno due universi, uno in cui è a destra e uno in cui è a sinistra. Se lanci una moneta, in un mondo esce testa, in un altro esce croce. Se fai una scelta, entrambe le possibilità si realizzano, ma in universi distinti. Ogni singolo evento quantistico fa ramificare la realtà in innumerevoli possibilità, e noi siamo solo una delle infinite versioni di noi stessi, inconsapevoli delle altre.

Quando presenta questa idea, Bohr non la prende nemmeno in considerazione. La sua reazione è gelida, quasi sprezzante. Per la comunità scientifica, la teoria di Everett non è solo sbagliata, è inutile: non fa previsioni verificabili e sembra più filosofia che fisica. Everett, deluso e amareggiato, decide di lasciare il mondo accademico.

A questo punto, la sua vita prende una direzione inaspettata. Si unisce al Pentagono e inizia a lavorare su modelli matematici per la guerra nucleare. Contribuisce allo sviluppo della “distruzione mutua assicurata” (MAD), la dottrina che sostiene che un conflitto atomico tra USA e URSS porterebbe all’annientamento di entrambi. Paradossalmente, le sue equazioni influenzano la politica globale molto più di quanto abbia fatto la sua teoria sui molti mondi.

Eppure, mentre Everett lavora in segreto per il governo, la sua idea non scompare del tutto. Bryce DeWitt, un fisico teorico, inizia a interessarsi alla sua interpretazione e la ripropone negli anni ‘70, dandole il nome di “Many-Worlds Interpretation”. Lentamente, la teoria inizia a guadagnare terreno. Gli esperimenti di fisica quantistica avanzano e la decoerenza quantistica – il fenomeno che spiega perché non percepiamo gli effetti quantistici su larga scala – sembra suggerire che Everett potrebbe non essere stato così folle.

Nel frattempo, la sua teoria trova una seconda vita nella fantascienza. Philip K. Dick scrive di realtà parallele. Nei decenni successivi, Hollywood trasforma il multiverso in un concetto familiare: da Sliding Doors a Rick & Morty, fino a Everything Everywhere All at Once, l’idea che esistano infiniti mondi paralleli diventa parte della cultura pop. Hugh Everett, però, non vive abbastanza per vedere tutto questo. Muore nel 1982, senza mai ricevere il riconoscimento che meritava, senza sapere che la sua visione del mondo avrebbe affascinato generazioni di scienziati, scrittori e registi.

Oggi, la teoria a molti mondi è una delle interpretazioni più discusse della meccanica quantistica. Non ci sono prove definitive, ma alcuni esperimenti stanno cercando di capire se, in qualche modo, possiamo accedere a queste altre realtà. E se il multiverso esiste davvero, allora c’è almeno un universo in cui Hugh Everett ha visto la sua teoria trionfare. Magari, da qualche parte, c’è un altro te che ha fatto una scelta diversa pochi minuti fa. Un altro te che non ha finito di leggere questo articolo, un altro che lo sta rileggendo con attenzione. Un altro Everett che sta sorridendo, sapendo di essere stato finalmente compreso.

Spero che questo articolo vi abbia intrattenuto piacevolmente. Alla prossima!

Antonio Cesario